venerdì 27 giugno 2014

L'ESTATE DEL '90

Luca ha 12 anni, è grosso, terribilmente grosso, dicono di lui a scuola. Luca non è grasso, è alto e largo ed ha una strana luce negli occhi. No, Luca non è uno di quelli che a scuola vengono presi per il culo.
D'estate ha la pelle bruciata dal sole. Quel giovedì d'agosto Luca aveva capito tutto, aveva compreso di avere un dono, un dono speciale. Luca fiutava la paura, come i cani. Quella mattina aveva pestato di brutto un tipo di 14 anni fresco di motorino. Lo aveva inquadrato subito, lo sfigato aveva il terrore nero che potesse capitare qualcosa al suo ST; suo padre lo avrebbe ucciso. Luca aveva sfruttato la paura dello sfigato e, quando era giunta l'ora di muovere le mani, il tipo era davvero troppo distratto dalla paura per battersi decentemente. Luca si passò la lingua sul labbro inferiore. Il dolore lo fece sorridere. Il gonfiore sarebbe durato un paio di giorni; tre, con un po' di fortuna, e avrebbe ricordato a tutti che ne aveva steso uno di due anni più grande.
Luca pensò che prima di cena si sarebbe fatto un bagno al fiume, ma senza mettere la testa sott'acqua. L'acqua fredda avrebbe fatto sgonfiare il labbro , e lui non poteva permetterlo.
Scacciò in un istante il pensiero delle voci che sentiva quando andava sott'acqua, quando tutto era ovattato. Potevi anche vederla la paura degli altri, ma è dura capire e dominare la propria; anche per Luca,12 anni, che aveva capito tutto.
Alle tre e venticinque di un giovedì d'agosto Luca sollevò per la coda il topolino che aveva catturato, tenendolo alto tra se e il sole. La piccola preda si dimenava furiosa, con la forza che solo il terrore cieco sa imprimere. Prima di cedere all'inevitabile aveva lottato, provando a mordere e a graffiare, invano. In quei momenti Luca provava sempre una grande stima per le sue prede, ragazzi ben più grandi di un cazzo di topo reagivano con molto meno impeto davanti a Luca.
Con la mano libera sfilò il cento-colpi dalla tasca; glielo avrebbe legato alla schiena con del nastro e poi lo avrebbe lasciato libero.
Avrebbe fatto un bel cazzo di botto.
Certo avrebbe corso per qualche metro, col diavolo al culo e la morte in spalla.
Poi sarebbe diventato un piccolo fuoco d'artificio di sangue e budella.
Sì, avrebbe fatto proprio un bel cazzo di botto.
“Io non lo farei....fossi in te”
“E chi cazzo ha parlato?!”
Luca era fatto così, sempre pacato.
Girò lo sguardo a 360 gradi, nessuno.
L'afa era quasi insostenibile, la luce abbagliante.
“No! Non qui!”
Squittii di paura.
Sudori freddi.
Voci. Di chi?
Luca era abituato a gestire le voci, negli spazi chiusi, bui, sott'acqua; ma non gli era mai capitato così, all'aperto.
Forse stava diventando scemo sul serio.
Il riverbero del calore isolava tutto in una dimensione irreale.
Un topo implorava i propri Dei affinché un gigante, grosso, bastardo e che sentiva le voci, si dimenticasse di lui, non troppo, quel tanto che sarebbe bastato a consentirgli la fuga.
“Tranquillo che non sei scemo, sono qui”
E fu così che apparve Marco, da dietro l'angolo della casa in rovina, completamente avvolto dall'ombra pomeridiana.
Solo gli occhi parevano rifulgere di una brutta luce, anche se ciò che vi si scorgeva era solo vuoto.
Occhi inquietanti, del colore del ghiaccio.
Se Luca avesse avuto un po' di fegato in più avrebbe ammesso che Marco gli metteva paura, ma se avesse avuto un po' di fegato in meno, del resto, avrebbe lasciato andare il topo e sarebbe corso a farsi quel bagno.
E invece rimase lì, col topo in una mano, e il cento-colpi nell'altra.
“E tu cosa vuoi?”
Si sforzò a non essere, per lo meno, stronzo.
Luca era fatto così, un ragazzo sensibile.
Anche perché Marco era un ragazzo particolare, gli avevano detto.
Sei mesi prima il padre di Marco aveva giocato ai fuochi d'artificio con un calibro 12 e la propria testa.
Il risultato era stato uno splendido geyser si sangue, frammenti di cranio e cervello; uno spettacolo insomma. Uno spettacolo che Marco si era visto dal posto d'onore aprendo la porta della cantina al momento giusto.
In paese i ragazzi dicevano che se andavi a casa di Marco potevi sentire ancora la  puzza di carogna  perché non erano riusciti a pulire bene la cantina da tutti i pezzi di cranio e cervello;  ma d'altronde, nessuno era mai entrato a casa di Marco.
Non che comunque prima di tutto ciò Marco brillasse per socievolezza.
Luca e Marco, toro e torero, in piedi, immobili, nel sole.
“ Lascialo andare Luca, lui non conta nulla”
“ Bella questa! Lui non conta nulla. E lo credo bene! E' solo un cazzo di topo!”
“Appunto”
L'afa strinse ancora la sua morsa.
Il labbro pulsava un po' di più, Luca non se ne era accorto fino al quel momento.
Un topo intanto pregava.
Squittii.
Sudori freddi.
Mancava solo il pubblico delle grandi occasioni, mancava solo una musica di Morricone a far da sfondo.
Sudore e tensione per entrambi, il torero e, peggio, il toro.
Luca non la vide arrivare, non vide neppure Marco muoversi; eppure qualcosa lo colpì forte, sotto l'occhio destro. Una pietra.
Il topo e il cento colpi schizzarono in aria, le mani, invece, al volto.
Il topo era già sparito prima ancora di toccare terra, corse col diavolo al culo ma, almeno a sto giro,  aveva lasciato lasciato la morte ai piedi del gigante. 
Il toro si guardò le mani rosse di sangue, il suo, e caricò.
Luca era una furia urlante, cieca di rabbia e dolore.  Luca era il toro e Marco, beh Marco era il “luridissimo figlio di puttana” bramato dalla follia omicida del toro.
Marco attese immobile, Marco bramava la follia omicida del toro.
Il primo pugno lo colse in pieno viso.
Un gancio destro, incassato magistralmente da zigomo e naso.
Sbuffi di sangue esplosero da sotto le nocche di Luca, il sangue del torero misto a quello del toro.
Marco cadde all'indietro ma si rialzò subito. Quello sarebbe stato l'unico tributo che avrebbe versato al suo avversario.,I due si studiarono per un brevissimo istante e si lanciarono l'uno contro l'altro. La lotta fu dura, al pari di quella per la sopravvivenza, ma non riuscì a decretare né un vinto, né un vincitore.
Solo, ad un certo punto, finì.
I due ragazzi si ritrovarono sdraiati e senza fiato, fianco a fianco sull'erba.
“Cazzo^ a vederti sembri uno sfigato, ma in realtà sei uno tosto”
Non era un complimento.
“Cazzo! A vederti sembri uno tosto, ma in realtà sei uno sfigato”
Non era un insulto.
Risero entrambi sull'erba bruciata dal sole estivo. Risero per quanto il fiato e il dolore permisero loro.
Non c'era il bisogno di dire altro.
Un patto era appena stato siglato, qualcosa era nato, qualcosa di più duro dell'acciaio,  tracciato col sangue, indelebile, imperituro.

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